Premessa: Gianna è una delle mie colonne sonore storiche, l’ascolto da quando ero bambina, perché piaceva alla mi mamma. Mi ricordo ancora il momento in cui babbo le regalò la musicassetta “Maschi e altri”, loro erano molto avanti, per fortuna anche nostra che siamo cresciute così. Gianna è stata un punto fermo dei miei anni, mi sono formata con questa musica, ho amato (e amo da impazzire) le sonorità uniche tra rock e opera e i testi, soprattutto quelli scritti con Isabella Santacroce (altra mia croce e delizia), le sue canzoni sono state la soundtrack di tante mie esperienze e capitoli.
Svolgimento: mi avvicino al film “Sei nell’anima” (tratto dalla biografia della cantautrice “Cazzi Miei”, ora su Netflix) con la certezza di trascorrere ore in compagnia della sua musica (so tutte le canzoni a memoria, ora non mi riesce più. Non solo quelle di quando ero ragazzina e me le sentivo ad libitum, ma anche quelle della mia maturità; ora con altri cantanti, altre canzoni non mi riesce più). Scorrono così le immagini, le note, l’infanzia, le terre di Siena, Milano, la Germania, quell’accento che io sento molto vicino al mio, l’autoritarismo paterno, ma soprattutto la paura di deludere, la ribellione, il mondo della musica, e l’essere davvero artisti, cercando una mediazione tra ciò che si vive, ciò che ci ispira, ciò che ci implode e quello che il pubblico vuole. Rintraccio in tanti piccoli grandi eventi le canzoni che sono anche un po’ mie, ed è un gioco spesso doloroso ma sopraffino, emozionante e autentico. E poi, la paura della follia, il periodo delle allucinazioni, e rinascere, che è più importante che nascere. Insomma, piango esattamente per tutti i 113 minuti del film, non solo per il talento e la personalità unica di questa grande artista ma soprattutto per i due cuori pulsanti di questa storia e che credo (con coraggio e lealtà) siano il focus della storia, oltre la musica, oltre la biografia.
Ricordati:
- La follia, e ancora di più la paura della follia, quel momento dove si sta sulla soglia e non si sa se ci perderemo per sempre o riusciremo a tornare nella realtà. Quel momento lunghissimo di allucinazioni, paure, panico. La narrazione di questo tema è sconvolgente e prezioso. Eppure, c’è la rinascita.
- Il patriarcato e la paternità, altro cuore di questa storia, che ritroviamo anche nel titolo… Una storia complessa e rabbiosa, fatta di lotte, incomprensioni, scontri (tantissimi e violenti). Eppure, c’è l’armonia, su quel letto alla fine dei giorni, dove in maniera così vera ci sono semplicemente una figlia che tiene la mano al padre morente… e finalmente si dichiarano tutto l’amore che c’è sempre stato ma che forse non ha mai trovato parole e modalità. Un racconto che dilania, ma che fa bene. Non è mai troppo tardi.
- Probabilmente tutti siamo devastati dal senso di colpa e impotenza da non essere riusciti a salvare un’amica che credeva in noi più di quanto noi stesse ci credessimo.
E poi…
- Attori super, soprattutto la protagonista (Letizia Toni, quanto avrà studiato per riproporre esattamente sguardi e espressioni e movenze?), Cinzia H. Torrini che sa tirare fuori in regia il “tono” di questa storia a cui la stessa Nannini ha collaborato nella sceneggiatura. Complimenti ai costumisti, ai truccatori che hanno riprodotto con una fedeltà assoluta la nostra Gianna.
- Siamo un po’ tutte figlie, sorelle, amiche, compagne di Gianna.
Conclusione: queste lacrime non voglio dimenticarle.